SULLE VIE DELLA REGINA TEODOLINDA

LA STORIA DEL CASTELLO DELLA REGINA

Le lotte tra Guelfi e Ghibellini segnarono tragicamente le nostre valli tra il XIV e XV secolo. I “brembilleschi”, appellativo dato agli abitanti di Brembilla, erano ferventi e rissosi ghibellini e, con il sostegno di Bernabò Visconti, signore del ducato di Milano, eressero nel 1360 sul Castello di Cornalba (l’attuale Castello della Regina) e sul Monte Pizzidente (Canto Alto) delle piccole bastie in legno, che costarono alle casse di Bernabò Visconti 4000 lire. Le bastie, a causa dei frequenti scontri con i guelfi dei paesi confinanti, vennero distrutte nel 1362 e nel 1368, ma furono ricostruite interamente in pietra nel 1383, al costo di 5200 lire, spesa per buona parte finanziata da Rodolfo Visconti e poi riscattata dai brembillesi con la tassa sul sale. Contemporaneamente alle turbolente vicende del Castello della Regina, i brembillesi si resero tristemente protagonisti di crudeli e spietate scorribande ai danni di guelfi locali, estese fino in Valle Seriana, Val San Martino e bassa bergamasca, al punto da guadagnarsi il poco lusinghiero appellativo di “Maledetti brembilleschi”; si presume che i brembillesi godessero dell’appoggio e dell’aiuto dei Suardi, una delle più potenti famiglie di Bergamo di fede ghibellina. Ma chi la fa, l’aspetti: infatti il 20 agosto del 1383 un manipolo di 250 guelfi della Valle Brembana tentarono l’ennesima distruzione del piccolo fortilizio, e furono respinti. Per rivalsa del fallito tentativo, uccisero Persvallo dei Pesenti e sequestrarono le sue 80 mucche e 600 pecore; a loro volta i ghibellini brembillesi ferirono a morte il nipote di Merino Olmo. Dopo questo ultimo tragico avvenimento, seguirono altri scontri tra la Val Brembilla e la Valle Brembana, che non sfociarono però in episodi gravi. Secondo il Chronicon Bergomense Ghelpho-Ghibellinum di Castello Castelli, in quel periodo nella piccola bastia erano presenti un castellano, 8 soldati, un cane e un ragazzo. L’apparente calma in corso però durò poco e nella giornata di mercoledì 5 settembre1403 la bastia fu oggetto di una rappresaglia della brigata agli ordini del guelfo Bertazzolo dei Boselli di San Giovanni Bianco e dei soldati di Giovanni dei Sonzogni di Sussia: fu catturato il castellano e altri cinque dei presenti in quel momento, senza però procurare loro alcun male, ma venne distrutto il piccolo fortilizio le cui porte furono trasportate nella piazza di San Giovanni Bianco in segno di vittoria.


LA LEGGENDA DEL CASTELLO DELLA REGINA

Sul crinale della catena che cinge dal lato di levante la Val Brembilla (diramazione destra della Brembana), a sud della Corna Camozzera e in prossimità del villaggio di Sussia, noto agli alpinisti qual patria e dimora della valentissima guida Antonio Baroni, c'è una gobba che, se si guarda a ponente, appare vertice dello sperone su cui siede Cavoia o Covoia, mentre dalla parte opposta viene a costituire la testata di Val Borlesso, breve e selvaggia valletta che sbocca a pochi passi dalle acque ben note di S. Pellegrino. Quella gobba, la cui faccia orientale è in parte un dirupo, mentre l'occidentale scende con pendio ripido sì, ma non vertiginoso né brullo, è chiamata dagli abitanti del territorio «Castello della Regina». Il nome indica una leggenda; e la leggenda vive, e mi fu narrata anni addietro da un montanaro, che passò la sua vita, parte sul versante di Val Brembilla, parte su quello di Sussia. In un tempo molto antico, una regina protestante, saracina, o che altro mai fosse, non volendo piegarsi alla nuova fede, che da ogni parte incalzava, si rifugiò in Val Brembilla. Dapprima andò a mettersi sull'altura verdeggiante su cui sorge la chiesa detta di S. Antonio Abbandonato, ma poi, non sentendosi lì abbastanza sicura, si ritirò più addentro nella valle e più in alto; nel luogo che ora prende nome da lei. E lassù essa teneva alcuni cavalli che faceva pascolare sul pendio, poco sotto la vetta, in un punto che il mio narratore sapeva indicare con precisione; mentre il grosso della cavalleria stava, non troppo comodamente per verità, sul verde ripiano di Covoia, e l'esercito a piedi si teneva a basso, un po' più su del villaggio di Brembilla, nel punto dove ora c'è il tiro a segno. Quest'ultimo luogo si chiamava (e forse si chiama ancora) il Campo della guerra. Ma i credenti non dettero tregua alla Regina e la strinsero in modo da non poter più resistere. Allora essa si ficcò in una botticella e quindi si fece precipitare per i dirupi del lato orientale. A questo modo si sfracellò. Quanto alle sue genti, s'arresero ai nemici ed ebbero in parte salva la vita. Possibile che la Regina non trasportasse lassù il suo tesoro e non lo nascondesse? Ve lo trasportò realmente e realmente lo nascose; ed ecco non pochi mettersi a cercarlo, con gran danno dei Brembillesi: giacché quante volte si muove la terra sul Castello, gli elementi si mettono in rivoluzione e segue nella vallata un diavolio. Forse non più che una decina di anni prima della mia visita, un certo Becchina di Brembilla, che era stato a lavorare in Sardegna, quando era sulla via del ritorno, fu avvicinato a Livorno da uno stregone: «Tu ti logori la vita per un guadagno ben povero; e intanto hai vicino a te un tesoro, che ci potrebbe far ricchi tutti due. Il tesoro è sepolto sul Castello della Regina. Aspetta lì; e il 12 di Gennaio andremo insieme a scavarlo. Se poi non venissi e tu dovessi andar solo, porta con te un bambino in fasce e un gatto soriano rinchiuso in un sacco. Scavando sotto un cespo di lapazio, troverai una scala. Messa a scoperto la scala e sceso fino in fondo, romperai la parete. Ti si aprirà allora davanti una stanza con dentro un vitello. Vivo o morto che sia impadroniscitene e portalo fuori». Il Becchina ritornò al suo paese, e il 12 di Gennaio salì al Castello. Un bimbo in fasce da portare con sé non riuscì a trovarlo; se portasse il gatto, non ricordo con sicurezza. Comunque, trovò il cespo, scavò, scoperse la scala, scese in fondo, e stava per proseguire l'opera, quando si sentì come afferrare. Prontissimo risalì di corsa e balzò fuori; e fu un gran fatto che avesse salva la vita. L'ebbe almeno allora. Tornato a casa, si ammalò e venne in punto di morte. Chiamò il parroco, un bravo prete passato poi ad esercitare il suo ufficio a Lallio, e gli confessò cio che aveva fatto. Il prete inorridito, gli disse che se scampava, non disperava di poterlo trarre ancora dalle grinfie del diavolo; ma, se fosse morto subito, non lo sperava per nulla. Il Becchina guarì; senonché un paio d'anni dopo la sua vita ebbe fine. Sarà mai stata estranea a questa morte precoce l'avventura del Castello? Al brav'uomo che mi lasciò presso l'ultimo casale della montagna sopra Brembilla dopo avermi insegnato la via per raggiungere il passo che doveva condurmi a S. Pellegrino, manifestai l'idea di visitare il Castello. Egli mi dissuase, adducendo l'ora già alquanto tarda (ero partito la mattina da S. Omobono in Valle Imagna), e dicendo pericoloso l'avventurarsi per quelle rocce. Gli faccio io torto sospettando un pochino che, per quanto uomo di forme quasi atletiche e antico carabiniere, temesse che, andato lassù, potessi usare la piccozza d'alpinista di cui ero munito per mettermi alla ricerca del tesoro, attirando Dio sa quali sciagure sul paese? Sebbene i consigli mi avessero smosso dal proposito, una volta arrivato a Sussia non seppi resistere e salii al Castello. Volendo usare cautela e premendomi far questo, non andai proprio in cima; ma del Castello vidi e perlustrai quanto poteva bastare. Mi guardai bene tuttavia dall'adoperare la piccozza ad altro uso che di sostegno; e così quel giorno Val Brenbilla, in cambio di esser messa sottosopra dai venti e di vedersi rovesciare addosso acqua, grandine, fulmini, ebbe una serata tranquilla e serena, dopo una mattinata coperta e piovigginosa.


I LEGAMI CON IL MONTE FOLDONE

  • LA BAITA DEL FOLDONE

Le notizie più antiche relative alla baita del Foldone risalgono al 1383, quando Giacomo da Ceredano, accompagnato da molti ghibellini di Brembilla, saliva sul Foldone come punto di appoggio per ricostruire il castello di Cornalba. In tempi più recenti, nel 1919, la baita del Foldone (di proprietà del sig. Giuseppe Luiselli) venne acquistata dal sig. Michele Pirola nato a Fuipiano al Brembo nel 1862, affermato venditore di bestiame della contrada Brembilla di San Giovanni Bianco; ’intera area adiacente alla baita e penzana o “baet” in dialetto bergamasco, (tettoia di riparo per il bestiame) del Foldone era stimata in circa 452.000 m2. Pietro PIROLA emigrò in Argentina; nei tre anni di permanenza nel paese sudamericano, Pietro riuscì a guadagnare un cospicuo gruzzolo necessario per realizzare il suo sogno di comprare la baita del Foldone e pertinenze. L’estensione della proprietà in oggetto aveva come confine da sud il muro in pietra e terminava a nord alla sommità del monte Perondanino o Corna Quadra, per scendere poi verso San Giovanni Bianco con declivi e balze idonei al pascolo degli animali. Nella proprietà erano presenti altre due malghe. Il bisnonno Michele Pirola era molto apprezzato in paese in quanto aveva anche una grande competenza nel parto delle mucche. Molte persone andavano alla malga del Foldone ad aiutarlo nei periodi di fienagione in segno di riconoscenza per la sua generosità, morì tragicamente in giovane età per broncopolmonite tornando da Dossena dopo aver assistito al parto di una mucca. Nel 1982 l’amministrazione comunale di Brembilla, con l’allora sindaco Claudio geom. Gervasoni, acquistò la baita del Foldone e il terreno annesso dalla famiglia Pirola di San Giovanni Bianco; l’intento del Comune, grazie ai finanziamenti dalla Comunità montana della Valle Brembana e della Provincia di Bergamo, era di utilizzare la cascina dotandola di caseificio e di ospitare l’alpeggiatore. L’area attigua al monte Foldone fu poi piantumata a conifere su progetto del dottor Piccardi e i lavori furono commissionati a una ditta di Schilpario. Nel 1998 venne fondata l’Associazione Amici del Foldone. Questo portò alla rinuncia dei propositi di vendita del comune di Brembilla che deliberò uno statuto di concessione nel maggio del 1999, stipulando un contratto in comodato d’uso della baita e della penzana all’Associazione Amici del Foldone. Nei primi anni del 2000, con il contributo di un bando pubblico, venne ristrutturato il tetto della baita e installato un pannello solare; la penzana fu dotata di un locale di alloggiamento di emergenza per persone e fu impermeabilizzata la pozza per la raccolta dell’acqua piovana, detta “slaac” in dialetto bergamasco. Nello statuto per la concessione all’uso della baita si raccomanda al concessionario la manutenzione dell’immobile e la possibilità dell’utilizzo (previa richiesta) anche ad altre Associazioni o Gruppi del territorio.

  • LA STORIA DEL CIPPO DEI CONFINI

I frequenti scontri tra fazioni di guelfi di San Giovanni Bianco e San Pellegrino contro i ghibellini di Brembilla influirono considerevolmente anche sulla demarcazione dei reciproci confini. In data 4 febbraio 1395, davanti al notaio Raimondo de Vitalibus, i consoli di Brembilla, San Giovanni Bianco, Antea e Piazzo (attuale San Pellegrini Terme) firmarono gli atti che stabilivano i confini erigendo un cippo in pietra nel sito chiamato Pozzo Bianco che si trova ora su una forcella tra l’altipiano del Foldone e il Monte Sornadello. In prossimità del cippo sorgeva un antico roccolo, famoso per la sue consistenti catture di volatili, ben maggiori rispetto agli altri roccoli adiacenti (pare che il roccolo che catturasse per primo 50 uccelli venisse segnalato). N 45° 51.219', E 009° 36.781'

  • PASSO MERCANTE DEL FERRO

Il toponimo potrebbe avere origine da un antico tracciato esistente già alla metà del XIV secolo e utilizzato per il trasporto di ferro crudo o cotto proveniente dalle miniere di Valtorta e che qui scollinava tra la Val Taleggio e la Val Brembana. Infatti, per motivi di sicurezza, le vie di comunicazione nell’antichità si sviluppavano lungo i crinali delle valli. Alla metà del Trecento gli scambi commerciali tra le valli erano fitti, anche grazie alle esenzioni tributarie concesse tra il 1353 e il 1354 da Giovanni Visconti alle cosiddette Valli esenti, e cioè le valli Seriana, Brembana, Taleggio, San Martino e di Almenno. L’esistenza di queste vie commerciali è attestata dalle cronistorie dettagliate dei notai dell’epoca. Inoltre i reperti archeologici provenienti dal Castello della Regina attestano la presenza di una costruzione in cui erano presenti funzionari preposti al controllo delle vie di transito: sono infatti state trovate delle lamine in bronzo argentato con alloggiamento di ribattini, riconducibili a un cofanetto porta valori oppure a un registro per annotare il passaggio delle merci. Di fatto, nel 1369 il referendario delle Valli esenti aveva emanato un’ordinanza che imponeva la registrazione delle quantità di ferro forgiato o da fondere in transito verso la camera erariale della città di Bergamo. I continui cambiamenti di imposizioni fiscali erano imposti anche per contenere lo spopolamento delle valli e mitigare i continui conflitti tra le fazioni in perenne lotta. Un ulteriore cambiamento del sistema tributario si verificò nel 1384, quando le Valli esenti rinunciano temporaneamente alle esenzioni loro concesse.

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